Nonostante la pandemia, le ricerche sulla CDD sono andate avanti con interessanti sviluppi.
La prima novità è che, a 15 anni dalla famosa pubblicazione del Prof. Adrian Bird n cui si dimostrava che nei topi con sindrome di Rett (con mutazione di MECP2) i sintomi erano almeno in parte reversibili se il gene veniva riattivato da adulti, è stata rilevata una simile fenomenologia anche per la CDD. Lo studio di Adrian Bird ci dice che probabilmente non è mai troppo tardi per cercare di recuperare la carenza di MECP2 ed è stato fondamentale per spingere la ricerca sul recupero di MECP2 nei pazienti con la sindrome di Rett. Questo esperimento è diventato così famoso che i ricercatori di terapia genica nelle università e nelle industrie biotecnologiche chiedono comunemente se “qualcuno ha già fatto l’esperimento alla Adrian Bird per questo gene?” per qualsiasi sindrome genetica su cui lavorano. La novità è che il Prof. Joe Zhou e i suoi colleghi a Philadelphia hanno appena dato risposta a questa domanda per CDKL5. La risposta è stata affermativa: il deficit di CDKL5 è biologicamente reversibile.
Questo risultato non era scontato. Infatti, durante lo sviluppo del cervello, i neuroni devono nascere per poi migrare correttamente, sviluppare connessioni con le altre parti del cervello a cui devono essere collegati e quindi svolgere il loro lavoro rimanendo al proprio posto fino a quando non invecchiamo. La disfunzione di un gene potrebbe quindi alterare ciascuno o più di
uno di questi meccanismi in modo,
talvolta, irrimediabile. La CDD era candidata ad avere una potenziale
16
reversibilità, in quanto i neuroni si trovano nella giusta posizione e le connessioni cerebrali sono perlopiù corrette e non ci sono segni di neurodegenerazione. Ma dal pensare che le probabilità siano buone al poter dire “almeno nei topi questa malattia è reversibile” il passo è lungo. Ecco perché questo studio è un punto di riferimento per la CDD.
Nello studio, Terzic e collaboratori hanno creato due tipi di topi geneticamente modificati. Da una parte i topi che nascono con la normale espressione di CDKL5, ma che possono smettere di esprimere CDKL5 quando lo sperimentatore decide. Dall’altra, il tipo che nasce con carenza di CDKL5, ma può produrre CDKL5 quando lo sperimentatore decide. In sostanza, esiste un ceppo di topi in cui gli scienziati possono decidere quando inizierà la malattia e uno in cui gli scienziati possono decidere quando si fermerà. E usano questi topi per rispondere a domande chiave sulla biologia alla base della carenza di CDKL5. I risultati hanno indicato che i sintomi possono comparire anche se la malattia inizia dopo lo sviluppo e specularmente che se si riattiva il gene CDKL5 i sintomi che si erano instaurati mostrano un buon recupero. I risultati ci dicono quindi che dato che la proteina CDKL5 è espressa nel cervello per tutta la vita, essa sia importante per tutta la vita, non solo all’inizio dello sviluppo.
Questi risultati, così come quelli dello studio di Adrian Bird sulla sindrome di Rett, sono in realtà un’eccezione. Studi simili su malattie correlate non sono riusciti a mostrare un recupero così generalizzato. Ad esempio, nei topi modello della sindrome Phelan-McDermid, la reintroduzione del gene SHANK3 nei topi adulti recupera solo alcuni sintomi ed è necessario un intervento postnatale precoce per il miglioramento generale. Così pure nella sindrome di Angelman (gene Ube3a), è possibile recuperare geneticamente molti dei sintomi solo se si ripristina il gene durante lo sviluppo iniziale. Infatti, gli autori di questo studio hanno concluso che “la riattivazione di Ube3a negli adulti è solo minimamente efficace come intervento terapeutico”.
Quali possono essere le conseguenze a livello terapeutico di questa scoperta? Le persone non nascono con i geni così facilmente riattivabili come i topi in laboratorio e purtroppo quindi non possiamo scegliere di spegnere la loro malattia genetica. Abbiamo quindi bisogno di terapie per questo. Potrebbero essere terapie come la terapia genica, in cui portiamo una nuova copia del gene CDKL5 ai neuroni o altre terapie come l’editing genetico che corregge le mutazioni presenti nei pazienti o anche terapie proteiche se siamo in grado di fornire abbastanza proteina CDKL5 al cervello.
Sono quindi molteplici le tecnologie per ripristinare CDKL5 nei pazienti, ma è anche una vera sfida riuscire a farlo. Ecco perché lo sviluppo di questo tipo di trattamento richiede così tanto tempo. Una delle problematiche principali è raggiungere tutti (o la maggior parte) dei neuroni nel cervello. CDD non è un disturbo che colpisce una piccola regione del cervello e che si può risolvere con un’iniezione localizzata. Si pensa che la malattia coinvolga l’intero cervello e dovremmo riuscire a far sì che tutti (o molti) di quei neuroni abbiano CDKL5 sufficiente come risultato del trattamento. Sembra semplice ma è tremendamente difficile. Capire in quanti neuroni si debba avere il ripristino di CDKL5 per avere un’efficacia sufficiente e di quanto CDKL5 vi sia esattamente bisogno (un recupero parziale sarà sufficiente?), avere la giusta terapia che può farlo in modo sicuro… Beh sono tutte problematiche non facili da risolvere, ma l’importante è che gli studi proseguano e che risultati come questo ci avvicinino sempre di più al giorno di una possibile terapia.