L’obiettivo della presente sezione è fare il punto sullo stato della ricerca scientifica sulla Sindrome di Rett, con una panoramica sugli studi più avanzati nella comunità scientifica
Nonostante la pandemia COVID-19, il 2020 ha visto importanti avanzamenti nello studio della Sindrome di Rett (RTT). Questo articolo intende riassumere queste scoperte cercando ove possibile di chiarire lo stadio di avanzamento della scoperta rispetto alla ricerca di base, preclinica e clinica.
La prima novità che riportiamo è l’importante studio del gruppo di Adrian Bird che ha permesso di chiarire un meccanismo fondamentale del funzionamento di MeCP2. MeCP2 si lega sul DNA a livello di moltissimi geni regolandone potenzialmente l’attività. Questa molteplicità rende difficile individuare uno specifico meccanismo di malattia su cui intervenire. Il gruppo di Bird ha delimitato il campo scoprendo una nuova funzione di MECP2 particolarmente cruciale per l’insorgenza delle alterazioni tipiche della RTT. Dato che questa azione di MeCP2 sembra essere particolarmente importante per un gruppo di circa una ventina di geni, questo gruppo sembra essere un bersaglio promettente per le terapie. Quindi questo studio permette di restringere di molto il numero dei bersagli per terapie farmacologiche volte a migliorare le condizioni dei pazienti RTT (Tillotson et al., 2021). Uno di questi geni bersaglio di MeCP2 era già stato individuato dagli studiosi ed è il gene BDNF. Numerosi studi nei modelli animali avevano identificato un potenziale ruolo del BDNF nella RTT. Su questa linea, uno studio recente ha mostrato effetti migliorativi nel modello animale per trattamenti capaci di migliorare non solo la produzione del BDNF come fatto sinora, ma anche il suo trasporto all’interno dei neuroni (Ehinger et al., 2020). Queste osservazioni candidano il BDNF ad un ruolo terapeutico nella RTT però ci indicano anche una necessità di approfondimento delle conoscenze sui processi biologici di produzione, di trasporto e di rilascio del BDNF nel cervello delle bimbe RTT. L’interesse per il BDNF è testimoniato dal fatto che ci siano già state sperimentazioni cliniche, con un numero di pazienti limitato, con una molecola, il glatiramer acetato, che stimola la secrezione del BDNF. Questi studi hanno riportato miglioramenti motori e respiratori e una diminuzione delle crisi epilettiche in alcuni casi, ma anche una severa reazione avversa in tre casi (Djukic et al., 2016; Nissenkorn et al., 2017).
A questi studi si è recentemente aggiunto il trial clinico effettuato in Svizzera sul fingolimod (Naegelin et al., 2021), un farmaco già approvato per l’uso in altre patologie e capace di aumentare i livelli di BDNF. Il numero dei soggetti della sperimentazione del fingolimod era molto basso e non si sono rivelati effetti migliorativi significativi su misure cliniche, di laboratorio e di imaging. È interessante notare che i livelli di BDNF nel liquido cefalorachidiano, il liquido in cui è immerso il cervello, erano associati ai punteggi clinici, suggerendo che la quantità di BDNF nel liquido cefalorachidiano possa essere utilizzata come biomarcatore per la RTT. Purtroppo, però tutti questi studi sono limitati ad un basso numero di soggetti, ed inoltre, come suggerito dagli studi preclinici, si dovrebbe forse cercare di migliorare l’efficacia combinando trattamenti che agiscano sia sulla produzione del BDNF che sul suo trasporto e rilascio. Sarà anche interessante valutare gli effetti di molecole che agiscono stimolando il recettore trkB del BDNF che sembrano dare risultati positivi negli studi preclinici del gruppo di D. Katz (Adams et al., 2020; Schmid et al., 2012) o molecole che potenzino l’azione del BDNF agendo a livello del sistema adenosinergico (Miranda-Lourenço et al., 2020).
Un altro interessante lavoro è stato pubblicato dal gruppo di Muotri che ha sviluppato una metodica per scoprire composti farmacologici efficaci nel contrastare un aspetto fondamentale della RTT, ovvero la disfunzionalità delle sinapsi che altera la capacità dei neuroni di comunicare tra loro (Trujillo et al., 2021). Questo studio ha la caratteristica di utilizzare neuroni umani ottenuti per mezzo di riprogrammazione di cellule di pazienti che formano in cultura sistemi tridimensionali, detti organoidi, che dovrebbero simulare meglio della semplice cultura neuronale bidimensionale l’organizzazione dei circuiti cerebrali. Con questo sistema, il gruppo di Muotri ha selezionato due agenti farmacologici che riescono ad avere un’azione migliorativa sull’attività dei neuroni con mutazioni di MeCP2, il nefiracetam e il PHA 543613. L’effetto di questi agenti non è risultato completo, tuttavia il fatto che PHA 543613 abbia già passato con successo i test di tossicità preclinici, mentre il Nefiracetam è già disponibile commercialmente per uso nell’uomo, dovrebbe fortemente accelerare l’inizio di valutazioni cliniche nella RTT di questi trattamenti. Ci si può attendere che nel futuro questo sistema, che ha il vantaggio di basarsi su cellule di pazienti ma anche la limitazione di essere pur sempre nella situazione artificiale dell’organoide, proporrà anche altri candidati per gli studi clinici.
Negli ultimi anni altri trattamenti farmacologici stanno emergendo dai modelli preclinici, ad esempio il gruppo di Tongiorgi a Trieste ha mostrato che la mirtazapina, un antidepressivo agente a livello dei sistemi serotoninergici e noradrenergici già largamente utilizzato anche per pazienti RTT, ha effetti migliorativi (Flores Gutiérrez et al., 2020). La stimolazione dei recettori serotoninergici è un altro meccanismo potenzialmente sfruttabile per terapie sperimentali (Napoletani et al., 2021). Infine, un altro interessante agente terapeutico in studio è l’analogo del cannabidiolo cannabidivarina. Questa molecola non ha azioni psicoattive e, in modelli animali RTT, migliora i deficit cognitivi e aumenta i livelli di fattori come il BDNF, il IGF-1 e i recettori per i cannabinoidi (Zamberletti et al., 2019). Il cannabidiolo è al centro di uno studio clinico attualmente in corso di cui si attendono i risultati.
Un altro importante approccio per la scoperta di nuove terapie per la RTT è la riattivazione del cromosoma X. Le cellule del nostro corpo contengono due copie di ciascun cromosoma e quindi anche del cromosoma X su cui è localizzato il gene MECP2. Tuttavia, uno dei due cromosomi X risulta essere inattivato nelle cellule. Quale dei due cromosomi presenti si inattivi sembra essere un processo casuale, quindi nel caso di una paziente RTT con una delle due copie di MeCP2 disfunzionale si avrà un mosaico di cellule con MeCP2 funzionante e cellule che invece hanno la copia del gene non funzionante. Da qui l’idea di riattivare per mezzo di opportuni fattori molecolari la copia normalmente silente di MECP2. In questo modo anche le cellule con il MeCP2 non funzionante potrebbero ottenere un MECP2 ben funzionante. L’approccio è ancora sperimentale (Carrette et al., 2018) e vari gruppi ci stanno lavorando anche grazie al supporto di AIRett. Recentemente è stato pubblicato un lavoro che seguendo questa strategia ha iniziato a valutare alcune molecole che potrebbero riattivare l’espressione del MECP2 localizzato sul cromosoma X inattivato (Lee et al., 2020). Queste ricerche, al momento ancora in fase di sviluppo, genereranno candidati per nuove terapie.
Un approccio in teoria risolutivo per la RTT sarebbe rimpiazzare il geneMECP2 mutato che causa la RTT con una copia non mutata. Questa idea si basa sul famoso esperimento del 2007 di Adrian Bird che dimostrò in un modello animale appositamente manipolato che la reintroduzione di un gene MECP2 attivo in un topolino sintomatico determina una regressione dei sintomi. Studi successivi dimostrarono che se si inietta un adenovirus di per sé inattivo, ma capace di portare all’interno delle cellule in un topolino mancante del gene MECP2, e quindi sintomatico, una nuova copia funzionante di MECP2 si ottenevano sostanziali miglioramenti (Garg et al., 2013). Da questo ed altri studi su questo approccio denominato terapia genica, emerse chiaramente però che il dosaggio era un fattore critico con effetti negativi in caso di sovradosaggio che sono in linea con quanto già sapevamo ad esempio dalla sindrome da duplicazione di MECP2 che causa sintomi in parte analoghi alla RTT. Il problema del dosaggio è facilmente comprensibile considerando quanto già descritto sul mosaicismo delle bimbe RTT che in alcune cellule che esprimono il gene mutato e in altre esprimono invece l’altra copia del gene perfettamente normale. Di conseguenza l’introduzione di un’altra copia del gene potrebbe aumentare la quantità di MeCP2 nelle cellule che hanno già una copia normale del gene al punto da creare le caratteristiche della sindrome da duplicazione di MECP2. L’obiettivo della terapia genica dovrebbe quindi essere quello di fornire MeCP2 appena sufficiente (possibilmente il 50% della quantità normale) per salvare le cellule in cui MECP2 non funziona, ma non tale da causare disfunzioni nelle cellule normali. Per ovviare a questo problema il gruppo di Adrian Bird ha sviluppato un sistema che permette di controllare molto meglio degli studi precedenti la quantità di MeCP2 che veniva ad essere prodotta a seguito della terapia genica e che mostrava un beneficio in topi RTT maschi. Resta però da valutare l’effetto di questo nuovo approccio su topi RTT femmine per trarre conclusioni definitive su questa tecnologia.
Un’altra strategia per agire a livello genetico sul MECP2 mutato è la riparazione del gene mutato utilizzando la tecnologia CRISPR-Cas9 che è in grado di modificare i geni nei neuroni di animali adulti. Applicando questa tecnica, uno studio ha riparato sperimentalmente la mutazione di MECP2R270X in cellule staminali pluripotenti umane indotte (Le et al., 2019). Gli studi pubblicati riportano esperimenti condotti in sistemi in vitro e non sono stati ancora condotti studi sui topi per valutare l’efficacia di CRISPR-Cas9 nell’invertire il fenotipo della RTT. Un altro studio, tuttavia, ha tentato di correggere il MECP2 mutato in modo diverso. I geni vengono trascritti in mRNA che a sua volta viene tradotto in proteina. La mutazione presente nel gene viene quindi a essere presente nel mRNA e di conseguenza nella proteina. Questo ulteriore approccio basato sull’editing del mRNA intende correggere la mutazione di MECP2 a livello del mRNA. La tecnologia sfrutta un enzima (l’adenosina deaminasi che agisce sull’RNA) capace di convertire in modo specifico l’mRNA ed è stata applicata in colture neuronali con mutazioni di MECP2 (Sinnamon et al., 2017) riparando il MecP2 mutato a livello del mRNA. Anche in questo caso però le applicazioni in vivo sono ancora da mettere a punto.
In conclusione, come indicato dalla Prof. Huda Zoghbi in un suo importante e recente articolo di rassegna (Sandweiss et al., 2020) su Lancet Neurology, gli studi stanno elaborando molteplici approcci per sviluppare trattamenti. Numerose scoperte della ricerca di base hanno già portato a sperimentazioni cliniche, con alcuni modesti successi. In generale gli approcci cadono in tre categorie: il trattamento di specifici sintomi (tabella 1); i modulatori farmacologici che agiscono a valle di MeCP2 e gli interventi genetici (tabella 2). Naturalmente c’è ancora molta strada da fare. Tuttavia, la sorprendente quantità di progressi che ha avuto luogo nel breve periodo in cui sono state conosciute le cause genetiche della Sindrome di Rett e della sindrome da duplicazione MECP2 dà motivo di sperare che la vita delle persone e delle famiglie affette da queste malattie sarà migliorata nel corso della nostra vita.