Congresso Livorno 2004
Ho incontrato la prima bambina con sindrome di Rett, che chiamerò Aba, nel 1980; in quegli anni si sapeva ben poco su cosa fosse la sindrome di Rett e su come si manifestasse.
Mi ero da pochi anni diplomata come terapista della riabilitazione, erano anni in cui la riabilitazione, in generale, aveva avuto grosse innovazioni, io ero interessata a saperne sempre di più e quindi anche ad uscire da quelli che erano i miei obblighi professionali, per cui, spesso, ero anche disponibile ad accompagnare i pazienti da me seguiti alle varie consulenze a cui erano sottoposti.
Su questa bambina dai profondi e indecifrabili occhi neri ho sentito dire di tutto e di più, ogni “esperto” cambiava regolarmente diagnosi: microcefalia, spina bifida, epilessia, autismo, p.c.i., sindrome di Marfan… e naturalmente cambiava il progetto riabilitativo.
L'unica cosa che veniva regolarmente confermata era che doveva “fare tanta terapia”, ma cosa era corretto fare nessuno lo diceva.
Decisi quindi, in accordo con i familiari, di farle raggiungere, nel miglior modo possibile, le varie tappe del “suo” sviluppo psicomotorio; ero aiutata in questo solamente da ciò che si trovava in letteratura, cioè ben poco; mi rimboccai le maniche per le problematiche che la letteratura non mi aiutava a risolvere.
Aba aveva problemi ad alimentarsi correttamente, era molto difficile “comunicare” con lei, cercai di motivarla a muoversi il più correttamente possibile, di farle utilizzare quelle mani, così particolari, imprigionate in uno “strano” movimento stereotipato vicino alla bocca, che alcuni “specialisti” avevano detto fosse dovuto alla “fase orale”, descritta da S. Freud, anche se Aba era fuori tempo massimo…
E' stata inserita a scuola, è riuscita a camminare, ma non ha mai parlato, abbiamo, comunque, sempre cercato di rispettare i “suoi” tempi.
Con il passare del tempo la vedevo solo per controlli periodici o se qualcosa non andava… poi negli anni '90 al nostro servizio territoriale è arrivato un Neuropsichiatria infantile che studiava la sindrome di Rett, me ne ha parlato, (anche perché, nonostante le delusioni ed il passare degli anni, l'entusiasmo iniziale era sempre presente…) ed è stata una folgorazione: Aba!
Decisi di farla immediatamente conoscere al Neuropsichiatria infantile, che confermò: Aba aveva la sindrome di Rett.
Da quel momento mi sono interessata a questo tipo di patologia, ho incontrato altre bambine con la sindrome di Rett, ho potuto constatare le problematiche che sono comuni a tutte loro.
Molte di loro assumono atteggiamenti posturali scorretti che, se non vengono subito modificati, possono portare a patologie della colonna vertebrale, anche gravi, come scoliosi e dorso curvo.
Queste, a loro volta, se trascurate, possono portare, nei casi più gravi, a problemi cardiorespiratori.
E' molto importante motivare le bambine con la sindrome di Rett al movimento; per questo è indispensabile, prima di iniziare un percorso riabilitativo, stabilire con le persone che interagiscono o interagiranno con queste bambine se fare, cosa fare, quando fare e, soprattutto, cosa non fare (mi riferisco ai familiari, alla scuola, alle persone con cui attueranno forme di sport o di socializzazione, che comunque avranno contatto con loro).
Le indicazioni che vengono date devono prima di tutto rispettare i loro tempi e le loro esigenze.
La riabilitazione nell'infanzia deve essere intesa come la capacità di promuovere lo sviluppo della funzione psicomotoria fino a cercare di rendere competente, ad assolvere le esigenze della vita di relazione, ogni bambino.
La semeiotica riabilitativa deve saper interrogare la funzione per conoscere in che cosa, come, quando e in quale misura quel bambino risulterà diverso dagli altri.
Come per ogni bambino con problemi, bisogna saper formulare per tempo una prognosi corretta e scegliere la strada più idonea alla realizzazione di un adeguato comportamento adattivo.
Bisogna identificare gli strumenti presenti e futuri su cui il bambino potrà costruire funzioni motorie competenti, è quindi importante il fatto che esista omogeneità tra le forze muscolari conservate, mobilità delle articolazioni interessate e possibilità di applicazione di idonei presidi ortopedici.
Quando parlo di idonei presidi ortopedici, mi riferisco nel caso dell'articolazione tibiotarsica, spesso compromessa in queste bambine, all'utilizzo di tutori AFO, cioè i tutori gamba/piede.
Quelli di nuova generazione, a differenza di quelli classici costruiti in cuoio ed acciaio, utilizzano polimeri moderni, come il polietilene ed il polipropilene, che sono dotati di grande elasticità.
Se alcuni muscoli risulteranno eccessivamente accorciati, andranno allungati in via fisioterapica (dopo averne aumentato la temperatura per renderli più cedevoli, tramite stiramenti lenti, per evitare la componente contrattile, graduali, per superare la componente estensoelastica, progressivi e prolungati, per accedere alla componente viscoelastica, l'unica che permette di ottenere una modificazione duratura della lunghezza del muscolo), oppure in via chirurgica quando la retrazione da dinamica, diventerà statica.
Mi ripeto, ma lo ritengo fondamentale, prima di tutto viene la prevenzione e quindi ritengo più giusto parlare di “educazione posturale”, non solamente per le bambine con la sindrome di Rett, ma per ognuno di noi.
A questo punto mi sarebbe piaciuto aprire un capitolo, per me importante (infatti coloro che mi conoscono, me lo sentono dire spesso), che riguarda la “salute” delle articolazioni e del rachide di coloro che gestiscono persone con problemi motori; infatti quasi nessuno li “educa” a “muoversi” correttamente quando sono loro a dover far fare cambi posturali, in questo caso, alle loro bambine…
Ma ritorniamo all'argomento che dovrei trattare in questa sede: “la consulenza fisioterapica”.
Importanti sono le posizioni in cui devono essere tenute le bambine con la sindrome di Rett, se più grandi o più abili, che saranno in grado di mantenere, perché è di fondamentale importanza avere, sia di giorno che di notte, una postura corretta, questo per prevenire, come già detto, patologie del rachide, ma anche per impedire il formarsi di retrazioni muscolotendinee.
Tutti i bambini, con patologie e non, devono essere motivati al movimento, questo deve essere, inoltre, il più corretto possibile.
A questo punto entra in gioco il Progetto Versilia.
Ho sempre ritenuto indispensabile che, anche se diverso è l'approccio riabilitativo nei vari tipi di patologie, l'unica costante per lo specifico settore dell'età evolutiva è che ogni intervento riabilitativo deve avvenire in un “contesto ludico”.
Il gioco appartiene all'uomo, è una delle sue modalità espressive più significative.
Il giocare non rappresenta per ogni bambino una prestazione effimera e superflua, ma è l'attività privilegiata: è l'esperienza più trainante del suo vivere quotidiano.
Il gioco confina con l'arte di cui condivide la dimensione espressiva e la possibilità di trascendere e rimodellare la realtà; il gioco confina con lo sport, con la ricerca dei propri limiti, per il piacere di superarli ed il desiderio di misurarsi continuamente con se stessi e con gli altri.
Più il gioco è codificato, istituzionalizzato e socializzato e più si avvicina allo sport.
Il gioco confina con il lavoro, anche se dal lavoro vero, che i bambini incontrano con la scuola, il luogo del compito e della competizione, lo separano la mancanza del dovere, restando il gioco un'attività spontanea, ma anche l'assenza del profitto, essendo il gioco un'attività totalmente disinteressata.
Nella riabilitazione dei bambini con handicap, il gioco confina con la terapia.
Nelle bambine con sindrome di Rett la capacità di giocare è una delle funzioni primariamente compromesse.
Saper giocare e far giocare un bambino è uno dei modi più importanti di prendersi cura di lui.
Per poter giocare con un bambino, specie in presenza di disabilità, come nelle bambine con sindrome di Rett, è indispensabile saper creare un idoneo setting.
Il gioco è uno strumento indispensabile per lo sviluppo dei bambini.
Ai fini terapeutici il gioco non può essere lasciato completamente alla spontaneità ed il giocattolo deve essere sempre finalizzato verso qualche obiettivo terapeutico, connesso allo sviluppo delle funzione adattive, cioè a quelle attività adatte ed adattabili ad uno specifico contesto.
E' però attraverso il gioco che la terapia diventa più efficace ed accettabile ed il bambino sviluppa maggiore capacità nell'apprendere e nel modificarsi.
Quando propone un gioco la terapista deve prevedere quali capacità, abilità, competenze il bambino, in questo caso la bambina con sindrome di Rett, sarà in grado di attivare proprio con quel gioco, con quelle regole ed in quella particolare maniera.
Obiettivo del trattamento non è educare ad abilità specifiche, ma a capacità adattive, per questo motivo la scelta degli oggetti in riabilitazione (sussidi, giochi, giocattoli) assume particolare rilevanza, in quanto essi sono mediatori tra finzione e realtà, tra esercizio terapeutico e vera abilità.
Ecco perché, quando ho saputo che in Versilia c'era la volontà da parte di alcune persone volenterose di far “giocare” nell'acqua, con il cavallo, con la musica, alcune bambine con sindrome di Rett, mi sono subito resa disponibile a dare la mia consulenza, perché apprenderanno molto di più a muoversi correttamente in questo contesto, piuttosto che in noiose sedute di fisioterapia; inoltre se sarà necessario il mio intervento su di un rigido tappeto o lettino di fisioterapia, sicuramente non sarò più “Crudelia”, come alcuni miei piccoli amici, mi hanno soprannominata.