Sintesi a cura di Silvia Russo,
Laboratorio di Citogenetica e Genetica Molecolare, Istituto Auxologico Italiano, Milano
Il convegno Europeo sulla Sindrome di Rett si è svolto quest’anno a Berlino. Durante le due giornate sono stati trattati parallelamente argomenti di clinica e di ricerca di base. Le presentazioni nella sessione della ricerca di base hanno discusso principalmente il ruolo fisiologico e patofisiologico delle proteine MeCP2 e CDKL5, proteine le cui mutazioni sono responsabili della Sindrome di Rett, e lo stato dell’arte nella ricerca di nuove strategie terapeutiche.
La sezione scientifica si è aperta con la comunicazione della
dott.ssa Lisa Boxer, che lavora presso la Harvard Medical School nel laboratorio del prof. Greenberg M. Lo studio si propone di spiegare quale sia il ruolo di MeCP2 nei primi giorni che seguono la nascita durante le fasi finali dello sviluppo del cervello, fortemente influenzate dal fattore ambiente. Era stato già osservato da questo stesso gruppo che la proteina MeCP2 fosse attivamente coinvolta nel processo, favorendo o inibendo nelle cellule nervose l’espressione di specifici geni in seguito a stimolazione ambientale. I ricercatori hanno dimostrato che, come conseguenza dell’attività neuronale, alcuni siti (Ser86, Ser274, Thr308 e Ser421) della proteina MeCP2 subiscono una modificazione chimica, chiamata fosforilazione. Quest’ultima altera la capacità della proteina di legarsi a complessi proteici necessari per permettere l’interazione con specifiche regioni metilate, le regioni mCA, localizzate all’interno di alcuni geni. Tali geni producono trascritti molto lunghi e sono selettivamente espressi nel sistema nervoso e implicati in funzioni neuronali. Nelle cellule dei controlli, in cui la proteina MeCP2 lavora correttamente, essa legandosi alle sequenze mCA svolge il compito di limitare l’espressione di questi lunghi geni; d’altro canto si è visto che riducendo l’alterata espressione nel modello animale di questi trascritti, i deficit della Sindrome di Rett migliorano. Si è inoltre compreso che questo tipo di regolazione è specifico delle cellule nervose e varia nei diversi tipi di neuroni, eccitatori ed inibitori, degli strati profondi piuttosto che superficiali. In conclusione il legame di MeCP2, che avviene precocemente dopo la nascita, agirebbe come un fine regolatore della trascrizione di geni specifici per la funzione di quella cellula nervosa; una volta che questa interazione è avvenuta si stabilizza determinando un effetto a lungo termine sull’espressione genica.
In una successiva comunicazione il dott. Ross dell’università di Glasgow ha mostrato gli studi eseguiti su un modello animale che produce una proteina MeCP2 normale nel sistema nervoso, ma ne è privo in tessuti periferici, dimostrando che la maggior parte del quadro clinico della Sindrome di Rett, compresi disturbi respiratori, atassia, disturbi cardiaci e disturbi del comportamento dipende dal deficit nel sistema nervoso, mentre rimangono la tendenza all’affaticamento e problematiche scheletriche. Interessante anche il lavoro presentato dal dott. Shea, Cold Spring Harbor Laboratory di New York, il quale mostra come l’accudimento materno ed in particolare la capacità di raccogliere i cuccioli, udendone il richiamo da parte delle topoline eterozigoti per la presenza di Mecp2 sia un buon marker per misurare la plasticità corticale, in particolare quella della corteccia uditiva. Le cure parentali normalmente stimolano la plasticità corticale uditiva, questo non avviene nel caso delle topoline Rett. Ciò a supporto dell’idea che un danno sensoriale contribuisca ai deficit di comportamento nella Sindrome di Rett e che il deficit di MeCP2 impedisca la plasticità sinaptica stimolata dall’esperienza.
Tra gli interventi più significativi del giorno successivo ricordiamo quella della dott.ssa Cardoso (Università di Darmstadt, Germania) che ha aggiunto nuove conoscenze ad uno dei principali ruoli della proteina MeCP2, ossia quello di controllare l’attività di geni espressi nel cervello legandosi a regioni che contengono citosine metilate. La dott.ssa ha spiegato come un gruppo di proteine presenti nei mammiferi, gli enzimi TET (Ten-Eleven Translocation) siano in grado di convertire le citosine metilate del DNA, le stesse a cui si lega la proteina MeCP2, in idrossimetilcitosine. Le TET sarebbero quindi coinvolte in meccanismi di demetilazione attiva del DNA. In questo contesto il gruppo della Cardoso dimostra come il legame di MeCP2 al DNA avrebbe un ruolo protettivo dall’ossidazione delle TET. MeCP2 impedirebbe fisicamente l’accesso al DNA da parte delle TET. Nei neuroni di modelli in vivo ed in vitro che non producono una sufficiente quantità di MeCP2 si trova infatti una maggior numero di idrossimetilcitosine e la riespressione di regioni che dovrebbero essere non funzionanti. Quindi in assenza di MeCP2, si verifica un maggiore accesso di questi enzimi al DNA ed un aumento dell’espressione nelle regioni satellite. La dott.ssa Cardoso ha infine accennato allo sviluppo di una nuova tecnologia che permetterebbe di trasportare all’interno delle cellule proteine di rilevanza terapeutica quali MeCP2.
Il dott. Bienvenu (Inserm, Parigi) ha presentato un intervento dal titolo “Deficit di MeCP2, dinamiche dei microtubuli e trasporto vescicolare”, spiegando i risultati dei loro studi sul ruolo svolto dagli astrociti, cellule non neuronali, presenti nel cervello che sono molto importanti per il normale svolgimento delle funzioni neurologiche. Il coinvolgimento degli astrociti come causativi della Sindrome di Rett era stato già dimostrato così come il fatto che la presenza di astrociti con una normale produzione di MeCP2 potesse contribuire, nel topo ko, ad un miglioramento della sintomatologia della sindrome. Il gruppo di Bienvenu ha osservato che i fibroblasti di pazienti Rett presentano un’alterata stabilità dei microtubuli. Il fenomeno è stato osservato anche negli astrociti. Nello specifico, analizzando gli astrociti differenziati dalle cellule staminali pluripotenti indotte (iPSCs) ottenute da una paziente con mutazione pArg294*, si è osservata una variazione di a-tubulina ed un aumento della istondeacetilasi 6 (HDAC6) oltre ad un’alterata dinamica dei microtubuli e del trasporto delle vescicole ad esso correlato. I microtubuli sono cruciali nello sviluppo del cervello, perché sono necessari per la migrazione e la polarizzazione neuronale e per la plasticità sinaptica ed è per questo che Bienvenu e il suo gruppo hanno pensato che ristabilizzando la dinamica dei microtubuli si potesse compensare la perdita di funzione di MeCP2. A questo scopo hanno inizialmente utilizzato un farmaco, il paclitaxel che ristabilizza i microtubuli. Purtroppo, pur essendo efficace nelle colture cellulari, questo farmaco attraversa la barriera ematoencefalica con un’efficienza molto bassa. Bienvenu ha mostrato quindi interessanti risultati di studi eseguiti sia sul modello animale che in vitro, utilizzando il farmaco EpD, Epothilone D, uno stabilizzante naturale dei microtubuli in grado di attraversare la barriera ematoencefalica e già in uso nella terapia delle taupatie (quali per es. la Sindrome di Alzheimer). In un modello di topo maschio 308/y di 4 mesi trattato con questo farmaco si è riscontrato un miglioramento dei tremori e della memoria, un lieve miglioramento nelle capacità esplorative e una diminuzione delle crisi convulsive indotte artificialmente. Questi risultati incoraggiano altri studi che confermino i risultati e lo sviluppo di strategie terapeutiche volte a ripristinare la stabilità dei microtubuli.
La sessione delle strategie terapeutiche è stata introdotta dal
prof. Kaufmann (Centre for Translational Research, Greenwood, USA) che nella sua presentazione ha fatto una panoramica circa la ricerca di terapie per la cura della Sindrome di Rett e le sfide che ancora restano da superare. Prendendo spunto dal fallimento di due trials clinici sull’X fragile, Kaufmann ribadisce come la sperimentazione richieda l’uso di modelli animali e altri modelli negli studi detti preclinici, nella prima fase dello sviluppo di un farmaco, per valutare almeno in linea di principio la sua efficacia e non tossicità. Tuttavia si deve tenere conto delle differenze biologiche tra il modello animale e le pazienti, (ad esempio la limitata corteccia frontale del topo, la difficoltà a studiare nell’animale gli effetti sull’epilessia), che non consentono di paragonare i sintomi osservati nell’animale con quelli nell’uomo e tanto meno di considerare un miglioramento sull’animale come una misura dell’effetto nell’uomo. Ciò che è molto efficace nell’animale potrebbe non esserlo nel paziente e viceversa. Inoltre spesso i farmaci hanno un effetto generalizzato, come ad es. il trofinetide, che può interessare molti sistemi o pathway dell’organismo. Una questione fondamentale per una corretta valutazione dell’effetto del farmaco sulle pazienti consiste nell’individuazione dei cosiddetti “biomarkers”, ossia parametri misurabili e validati che permettano di quantificare gli eventuali miglioramenti. Ad oggi si conoscono 4 misure validate per stabilire i possibili miglioramenti sulle pazienti: CGI (Clinical Global Impression Scale), RSBQ (Rett Syndrome Behavior Questionnaire), CHQ (Child Health Questionnaire, una misura della qualità della vita), RSGMS (Rett Syndrome Gross Motor Scale). Altri due promettenti biomarkers non ancora validati sono l’indice di asimmetria frontale alfa e potenziali visivi evocati. Bisogna però ricordare che i biomarkers non sono sufficienti per una definitiva approvazione del farmaco, ma solo per la valutazione della sua efficacia e non tossicità nelle prime fasi dei trials clinici, fase 1 e fase 2. Per evitare quindi false speranze, secondo Kaufmann, è necessario eseguire studi che valutino contemporaneamente misure di efficacia e di sicurezza, definire il maggior numero possibile di biomarkers a livello clinico e molecolare, creare bio-banche, condividere i risultati e pianificare in modo accurato i trials clinici. Kaufmann suggerisce la creazione di un comitato per i trials. Il dott. Laccone (Vienna) descrive i suoi studi per la somministrazione della proteina MeCP2 di cui mostra i risultati ancora incerti e riferisce i suoi propositi di migliorare la modalità di somministrazione e dosi, la messa a punto di saggi biochimici per valutare l’attività di MeCP2 e il disegno di nuovi costrutti e proteine.
La comunicazione del dott. Gribnau (Dipartimento di Biologia dello Sviluppo, Erasmus, Rotterdam, Olanda) spiega la situazione piuttosto intricata dell’inattivazione del cromosoma X. L’inattivazione del cromosoma X è quel meccanismo che determina negli individui di sesso femminile l’attivazione e quindi il funzionamento di uno solo dei due cromosomi X presenti in una cellula. Grinbau mostra come alcuni geni sfuggano a questo meccanismo, ma non in modo omogeneo nei diversi tessuti, ad esempio nel cervello vi sono più geni sul cromosoma X entrambi funzionanti. Tuttavia il gene MeCP2 non è tra questi e viene inattivato al 50% come atteso. Un’ulteriore osservazione di questi ricercatori è che l’inattivazione di alcuni geni risulta tessuto-specifica e può variare nelle diverse pazienti. Conoscere come si manifesti l’inattivazione del cromosoma X è importante nella Sindrome di Rett, per chi studia la messa a punto di strategie terapeutiche volte alla riattivazione del cromosoma X che non porti il difetto genetico. Conclude esortando coloro che stanno lavorando in questo senso ad utilizzare modelli animali modificati in modo adeguato per poter distinguere l’inattivazione del cromosoma X.
L’ultima comunicazione tenuta dal dott. Gadalla (Università di Glasgow, UK) ci ha dato un aggiornamento sugli esperimenti di terapia genica. La terapia genica richiede l’utilizzo di un vettore virale che trasporti una copia funzionante del gene MECP2 all’interno delle cellule e nel cervello. Precedenti esperimenti con il vettore virale AVV9 avevano mostrato una limitata efficienza di trasduzione nel cervello ed una elevatissima tossicità. Gli animali trattati mostravano una risposta dose dipendente. I topolini Mecp2/y, maschi, trattati con bassi dosaggi erano molto simili come sopravvivenza e gravità del quadro clinico a quelli non trattati, tranne che per l’aumento di peso; i topolini trattati con un dosaggio intermedio miglioravano anche la sopravvivenza, ma solo quelli che ricevevano dosaggi molto alti miglioravano i sintomi neurologici. In compenso il danno epatico di questi ultimi era molto alto. Misurando la quantità di MeCP2 presente nell’ippocampo (un’area cerebrale) dei topolini, si osservava una quantità doppia rispetto a quella fisiologica. In questi esperimenti il vettore era stato iniettato in vena, per via sistemica. Per capire se la tossicità dipendesse dal virus o dall’overespressione di MeCP2 era stato iniettato il virus senza MECP2 ed in questo caso non si osservava tossicità. Gadalla ed il suo team hanno quindi provato a realizzare un nuovo vettore che controllasse meglio il numero di copie di MeCP2 espresse e fosse quindi meno tossico. Dopo vari tentativi hanno generato un vettore detto di “seconda generazione” diverso per la struttura del capside del virus e per la porzione del gene MeCP2 inserita, che include anche alcune regioni regolatorie. Il trattamento con il nuovo vettore a diversi dosaggi mostrava il vantaggio di avere una tossicità limitata, ma non si osservavano miglioramenti nei sintomi neurologici. Infine i ricercatori hanno somministrato il vettore di nuova generazione direttamente per via cerebroventricolare nei topolini neonati. Questa modalità è noto essere quella che permette il maggior rilascio alle cellule nervose. Infatti i topolini sopravvivevano più a lungo e miglioravano notevolmente i sintomi neurologici, mentre il peso non variava in modo significativo. Gadalla ha concluso augurandosi che lo sviluppo di questo nuovo capside e le conoscenze acquisite circa le potenzialità terapeutiche e la tossicità contribuiscano allo sviluppo di vettori più sicuri ed efficaci adatti ad essere utilizzati nell’uomo.