Sintesi dott.ssa Silvia Russo, Ricercatore dell’AIRETT Research Team
La sindrome di Rett (RTT), descritta per la prima volta nel 1966 dal prof. Andreas Rett, rappresenta la seconda causa più comune di disabilità intellettiva nelle bambine, con un’incidenza di 1/15000-20000 nati. Si manifesta tra i 6 e i 18 mesi di età, dopo un periodo di sviluppo normale, con l’arresto dello sviluppo e poi una vera e propria regressione, cioè la perdita delle capacità acquisite sia in ambito motorio, in particolare della abilità manuali (accompagnate dalla comparsa di movimenti stereotipati delle stesse), che del linguaggio. Tale fase di regressione è accompagnata da un rallentamento della crescita del cranio sino alla microcefalia e può protrarsi per diversi anni (1-4 anni). Segue una fase di stabilizzazione apparente o periodo pseudo stazionario, dai 4 ai 10 anni, in cui le bambine riescono a riacquistare la capacità di comunicare, migliorano il contatto visivo, la capacità di riconoscere, di memorizzare, e alcune capacità tipiche della relazione sociale, seppure in un quadro complessivo di grave disabilità. Il principale gene responsabile della sindrome è MECP2, localizzato sul cromosoma X: le bambine affette da RTT hanno una copia mutata di tale gene e quindi non o mal funzionante. Dalla scoperta del suo ruolo causativo nella sindrome, avvenuta nel 1999, la comunità scientifica si è concentrata nel tentativo di spiegare la funzione di tale gene, e il numero di pubblicazioni scientifiche in merito è aumentato in maniera significativa; nel 2007 si è scoperto che non solo l’assenza funzionale di una copia di del gene, ma anche la presenza in duplice copia (duplicazione) su uno dei due cromosomi causa una fenotipo malfunzionante (sindrome da duplicazione Xq28 nei maschi) e che, mentre la delezione a livello di cellule in coltura di neuroni produce una ramificazione dendritica ridotta, la duplicazione in modelli di topo con MECP2 duplicato, porta ad una ‘arborizzazione’ dendritica e formazione di spine sinaptiche dendritiche esuberante, suggerendo che ci sia una sorta di ‘continuum’ nella patologia da alterazione di MECP2 (si parla di MECP2-patie) e che MECP2 giochi un ruolo chiave nel cervello per cui la sua funzionalità non possa essere alterata senza severe conseguenze.
Le terapie per tentare di curare la sindrome si sono esplicate attraverso due strategie: a) una strategia farmacologica indirizzata alla cura dei sintomi, b) “terapia genica” genetica, con l’obiettivo di ripristinare il corretto funzionamento di MECP2. La prima strategia si è indirizzata verso la identificazione di nuovi composti terapeutici. Fra questi a) BDNF (Brain Derived Neurotrophic Factor) un potente modulatore dello sviluppo, funzione e plasticità delle sinapsi dei neuroni, la cui espressione è disregolata in assenza di MECP2 correttamente funzionante; inoltre l’incrocio di topi che overesprimono BDNF con topi MECP2 mutante determina un notevole miglioramento della sintomatologia; b) IGF1 (Insulin-like Growth factor 1), coinvolto nello sviluppo di diversi tessuti nel corpo e anch’esso in grado di attivare circuiti di controllo della funzione sinaptica, il cui pathway è modulato da MEPC2; c) modulatori del recettore del glutammato (principale neurotrasmettitore eccitatorio del sistema nervoso dei mammiferi), in quanto nei modelli di topo MECP2 deficient è stata dimostrata una distruzione dell’equilibrio fra trasmissione sinaptica eccitatoria (sostenuta dal Glutamato) ed inibitoria (sostenuta dal neurotrasmettitore GABA) dei neuroni; d) infine dei supplementi alimentari, quali gli omega 3 acidi grassi polinsaturi (ω-3 PUFAs) e la curcumina, che agiscono contrastando i danni provocati dall’aumentato stress ossidativo documentato nelle bambine Rett,. Sono stati eseguiti alcuni trials clinici, cioè direttamente sulle pazienti, per IGF1 (farmaco Mecasermina) in Italia, per BDNF (farmaco cisteamina) e per il farmaco desipramina in Francia, che agisce sul ridotto contenuto di noreprinefina responsabile del pattern respiratorio anomalo delle pazienti.
La seconda strategia, volta al ripristino direttamente della funzione di MECP2, tuttora in fase sperimentale ha applicato diverse strategie.
Un approccio in fase di sperimentazione da molti anni è quello che mira al “superamento dei codoni di STOP”. Il codone di STOP è creato in una posizione non corretta da una mutazione che viene riconosciuta dal sistema di lettura dei geni come un segnale anomalo che fa interrompere la traduzione dei geni in proteina in quel punto, portando alla produzione di una proteina tronca. La terapia con antibiotici aminoglicosidici, avrebbe lo scopo di consentire che laddove esista nella paziente una mutazione di STOP (ad es. fra le più frequenti: Arg168X, Arg 255X, Arg 270X e Arg294X), venga letta diversamente, come un normale aminoacido, facendo in modo che il sistema di lettura dei geni proceda sino al segnale corretto di stop e si produca una proteina di lunghezza normale. Nel modello murino si è osservato che tale strategia porta all’aumento dei livelli di espressione di MECP2 con un miglioramento generale dei sintomi, ma ha la limitazione che non è applicabile per le mutazioni missenso, ha una efficacia variabile a seconda del tipo di mutazione e presenta tossicità renale.
Un secondo approccio trova invece spiegazione nel fatto che nei soggetti di sesso femminile in ogni cellula viene inattivato casualmente uno dei due cromosomi X ed ogni donna è quindi un mosaico di cellule che esprimono i geni di un cromosoma X o dell’altro; quindi il trattamento delle cellule con composti che riattivino i cromosomi X inattivi (inibitori delle DNA metiltrasferasi e attivatori delle istondeacetilasi), che al 50% portano il gene MECP2 non mutato, migliorerebbe i livelli di espressione del gene normale.
Infine un’ultima possibilità è data dalla terapia genica, cioè una tecnica sperimentale che usa i geni per trattare o prevenire la malattia invece di usare i farmaci o la chirurgia. Essa consiste nel trasferire il/i geni responsabili della malattia (in questo caso MECP2 non mutato), direttamente nelle cellule malate, o sostituire la copia ‘malata’ con una copia sana o inattivare un gene mutato che funziona impropriamente. Sebbene la terapia genica offra una possibilità di trattamento promettente per un buon numero di malattie (incluse malattie ereditarie, alcuni tipi di cancro e certe infezioni virali), la tecnica rimane rischiosa e sono in corso ancora studi per accertarsi che sia sicura ed efficace.
Attualmente la terapia genica è stata testata solo per il trattamento di malattie che non hanno altre cure. Il trasferimento del DNA all’interno delle cellule malate può essere eseguito sia con l’utilizzo di vettori virali, sia vettori non virali. I vettori virali (basati su adenovirus o lentivirus) cioè virus modificati contenenti al loro interno il frammento di DNA di interesse, sfruttano la capacità che hanno i virus di infettare le cellule umane ed hanno il vantaggio di entrare nella cellula con elevata efficienza, ma lo svantaggio principale di scatenamento di reazioni immunitarie avverse da parte dell’organismo che li riceve.
D’altro canto è possibile invece l’impiego di vettori non virali, cioè di liposomi, piccole vescicole a doppio strato lipidico contenenti il DNA, che sono in grado di integrarsi con la membrana lipidica, anch’essa a doppio strato, delle cellule e ivi rilasciare il loro contenuto, anche se ciò avviene con bassa efficienza e non è immune da possibile tossicità.
La terapia genica rappresenta una possibilità teoricamente proponibile in futuro per la cura della RTT, innanzitutto perché è stato dimostrato già nel 2007 con esperimenti in topo dal gruppo di Bird che la sindrome è reversibile. In tali esperimenti veniva generato un topo con un gene MeCP2 appositamente silenziato ma con la possibilità di essere riattivato condizionalmente (cioè in fasi diverse della sua vita) attraverso la somministrazione di un farmaco. I dati mostravano come gli animali prima del trattamento con il farmaco e la riattivazione del gene fossero immobili e con grossi problemi respiratori; dopo la cura, invece correvano per la gabbia ed erano praticamente indistinguibili da animali che hanno sempre avuto il gene funzionante. Inoltre l’attivazione di MeCP2 nei topi con MECP2 silenziato presintomatici preveniva completamente la comparsa dei sintomi, e l’attivazione di MeCP2 più tardiva nei topi già sintomatici revertiva la maggioranza dei sintomi, suggerendo quindi che il fenotipo Rett sia reversibile con terapia genica somministrata in qualsiasi fase della vita, indipendentemente dall’età del soggetto malato.
Ovviamente, poiché la RTT è una sindrome a compromissione prevalentemente neurologica, il vettore terapeutico utilizzato dovrà essere in grado di raggiungere tutto il sistema nervoso centrale. Se somministrato direttamente dovrà distribuirsi in tutte le aree del cervello, se iniettato più facilmente attraverso iniezione endovena, dovrà attraversare la barriera ematoencefalica (Blood Brain Barrier, BBB), cioè quella struttura istologica e funzionale che protegge il sistema nervoso centrale, composta da cellule endoteliali specializzate che rivestono il sistema vascolare cerebrale. La BBB è di fondamentale importanza nel mantenimento della omeostasi di neuroni e cellule gliali, ma blocca l’accesso al cervello di sostanze tossiche endogene o esogene.
Ad oggi sono stati eseguiti due studi preclinici di terapia genica per la RTT; nello studio di Gadalla et al. (2013) si aveva un recupero del fenotipo ed un miglioramento dell’aspettiva di vita quando il vettore adenovirale era iniettato direttamente nel cervello di topi maschi neonati MECP2-deficient, mentre la iniezione direttamente endovena in topi maschi giovani adulti portava ad un recupero molto lieve della sintomatologia, con trasduzione del vettore nel cervello molto scarsa (solo nel 2-4% dei neuroni). Nello studio di Garg et al. (2013) invece, utilizzando il medesimo vettore adenovirale in grado di attraversare la BBB, la iniezione endovena portava alla infezione di numerosi tessuti e di numerosi tipi cellulari all’interno del SNC, ed un recupero consistente dei sintomi in topi maschi adulti deficitari di MECP2 ed anche e soprattutto in femmine adulte, che rappresentano un modello più simile alla sindrome nell’uomo.
In conclusione gli studi preclinici sui modelli animali hanno dimostrato la validità dell’approccio della terapia genica per la cura della RTT. Il passaggio alla fase clinica, cioè l’applicazione della terapia genica alle bambine con la sindrome richiederà innanzitutto la ottimizzazione della modalità di somministrazione (per via intra cerebro ventricolare o più facilmente intravascolare). Occorrerà inoltre minimizzare eventuali effetti collaterali, legati alla reazione immunitaria che può essere generata dalla iniezione di un vettore esogeno, e legati alla non selettività dell’organo target. Inoltre bisognerà dimostrare l’assoluta sicurezza e tollerabilità, ancora in fase preclinica, in modelli animali più vicini all’uomo, quali maiali e soprattutto primati. A tale proposito sono stati eseguiti dei primi studi su scimmia, che non sono ancora stati pubblicati.